Hello to Ello

Nutro qualche dubbio sul futuro di Ello.
I suoi presupposti di partenza sono sicuramente giusti e condivisibili, i suoi piani di finanziamento un po’ ottimistici e forse un po’ ingenui.
Sicuramente stare su Ello adesso è un po’ come quando si arriva troppo presto in un locale: non c’è nessuno e non sai cosa fare.

Curiosando tra i profili sembra che la compagnia sia buona: artisti, designer, scrittori, fotografi… e c’è la possibilità di dividere le amicizie dalle conoscenze più o meno profonde.

La grafica è oltre i minimal, ma funzionale.

Se qualcuno volesse venire a farmi compagnia o fosse solo curioso di vedere questo anti-Facebook di cui si parla tanto e si sa poco, ho 15 14 13 inviti.

Google non trova, sa.

Scuola materna, interno giorno.

Fedele allo stereotipo che gli uomini si intendono di bricolage, la maestra chiede ad un padre dove possa trovare [qui immaginate una delle cose più improbabili da pensare un martedì mattina prima delle 9 ], a quanto pare fondamentale per un lavoretto da fare in classe.
Il padre abbozza, difende la propria dignità maschile dicendo che un oggetto di quel tipo non si trova sicuramente nei comuni centri per il bricolage ma che andrebbe cercato altrove.
La maestra sorride gentile, ma delusa quando ecco il salvataggio di una mamma sbalordita: “Una cosa così neanche Google la sa” .
Beccati questa, saputello di un Google.

 

Lo zen e l’arte della rimozione della pastina

Non scrivi più, ti dici.
Non scrivi più, ti dicono.
Non leggo più, non scrivo più non ascolto più: sono le tre scimmiette dei portachiavi da bancarella.
I bambini, la moglie, il lavoro, la casa: quando ne parli gli altri annuiscono automaticamente, ma non ascoltano nemmeno: sono frasi fatte che generano solo riflessi pavloviani.

E io corro, dormo poco, mangio male, corro, lavoro tanto, mi ammalo e non riposo, corro a scuola, corro a casa. C’è da fare, c’è da ricordarsi, bisogna andare.
Le riviste rimangono imbustate, i libri si impolverano sul comodino, fugurarsi mettere in fila un pensiero che sia più di 140 caratteri da mettere sul blog.

Poi mi ritrovo a passare momenti apparentemente infiniti a rimuovere la pastina da quasi ogni superficie della casa. Stelline tenaci e a lunga gittata, per quanto tu possa aver già pulito, ce n’è sempre una che sbuca.
Perchè un bambino di qualche mese mangia sì e no il 5% di quello che gli metti nel piatto, il resto è gioco, esperimenti e lanci.
E così, tra una stellina e l’altra, la noia della ripetizione fa sì che il cervello riparta, e che questi svegliandosi riesca a mettere in fila una sequenza di pensieri e frasi che più o meno è quello che ho appena scritto e qualcosa in più che mi tengo per me.
Devo provare col riso, domani.

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Una delle anime più vere di Milano si trova nelle sciure che incontri in zone come quella dove vivo, vicina al centro, ma altrettanto vicina alla periferia, dove guardano il Castello da Corso Sempione ma hanno Quarto Oggiaro che incombe alle spalle.
Queste signore sempre ben vestite, troppo truccate, troppo alla moda per la loro età.
Con i gioielli da prima della Scala anche se vanno dal panettiere e la pelliccia non appena fa freddo.
Si credono belle, eleganti e milanesi, diverse e migliori da chiunque abiti due traverse più in là, verso la periferia, verso gli extracomunitari.
Hanno il bastardino al guinzaglio ma lo trattano come se fosse un barboncino con chilometri di pedigree. Giocano a fare la gran signore e lo vedi che ci credono davvero.

Milano si crede capitale morale, capitale della moda, capitale della cultura, capitale dell’Europa, ma stagna e arretra come fa il resto del Paese.

Milano sta seduta sul suo passato e sui miti che ha generato, e non ammette che ormai, per quanto non so, le rimangono la moda e il design a darle un minimo di lustro.

Milano ha in mano un progetto proposto e realizzato da due italiani che tutto il mondo ammira: Claudio Abbado e Renzo Piano, e in poche parole, di questo progetto non sa che farsene.

Milano non sa più pensare in grande, i cittadini che firmano la petizione invece sanno ancora sognare una Milano degna di se stessa.

Le coccinelle

Le 0:28 lampeggiano sull’orologio. Questo quartiere periferico dormirebbe se un gruppo di operai vestiti di arancione non stesse martoriando l’asfalto vecchio con una macchina che fa un rumore infernale.
Domani avremo asfalto fresco. Le strisce pedonali, nuove e candide,  avranno l’ impronta dei primi usciti presto per andare al lavoro.

Qui dentro si sentono solo i respiri, due ritmi diversi.

Il più leggero alza appena appena una tutina bianca e rossa. E’ piena di coccinelle, e spero davvero che portino fortuna anche se chi le indossa non sa ancora cosa sia una coccinella.
Mia figlia non ha ha ancora imparato ad evitare gli sguardi e ti fissa dritta negli occhi, senza nemmeno un colpo di palpebra. Così io mi perdo a fissare occhi che non hanno ancora visto niente di quello che io non so nemmeno più di sapere.
Ha gli occhi di sua madre, mia figlia e già ripete qualcuno dei suoi sguardi. La prima volta che l’ho scoperto mi ha un po’ sconvolto, ma qui è tutto sottosopra, niente come sembrava dovesse essere per sempre.
Il ritmo è cambiato. Si corre più di prima e poi ci si ferma quando lei, la più piccola dei tre, decide che vuole il tuo tempo, le tue attenzioni e ti porta lontano, via dai rumori della città, via dalle corvée di uomo adulto.
Piccolo dittatore che sa farsi amare incondizionatamente anche quando decide, impone, obbliga.

Adesso che ho una donna in ogni camera della casa, non sono un uomo fortunato?